Mosè e Sinuhe
Prof. don Michelangelo Priotto
Trascrizione della riflessione offerta dopo l'escursione ad Har Karkom il 30 marzo 2019
Avrei due osservazioni da fare in vista di approfondimenti. La storia di Sinuhe è molto interessante e si può trovare nei libri di storia.
Sinuhe è un alto ufficiale egiziano che per qualche motivo, specialmente politico, deve fuggire perché è in pericolo di morte. Nella descrizione che si ricava da una tomba sono riportate la sua fuga e le peripezie compiute, in modo particolare durante l’attraversamento della frontiera.
Si narra che sia rimasto per una notte intera nascosto fra arbusti e cespugli vicino a dell’acqua stagnante, da dove vedeva le guardie di frontiera. Riesce poi ad attraversare il confine, cammina, è spossato, quasi al colmo, al limite della sopravvivenza. Ode però un belato di gregge ed è soccorso dai beduini che gli danno del latte e lo accolgono come ospite. Sinuhe starà per un certo periodo con loro e poi continuerà la sua fuga fino ad arrivare a Biblos. Infine, dopo molto tempo, ritornerà in Egitto.
Ora questa storia, sebbene sia più antica di alcuni secoli rispetto a quella di Mosè, ci dà una bella prospettiva per capire la prima fuga di Mosè dall’Egitto. L’esodo avverrà 40 anni dopo, seguendo la tradizione rabbinica: Mosè ha trascorso 40 anni alla scuola del faraone, 40 anni in Madian e 40 anni nella missione di liberazione dall’Egitto. La vicenda di Mosè può essere abbastanza simile a quella di Sinuhe, di un alto ufficiale. Non crederei che il redattore della storia mosaica si sia ispirato a questo racconto, ma è probabile che esso sia una tradizione tramandata come quella della nascita di Mosè e della sua salvezza dalle acque del Nilo. La storia ci dice quale poteva essere la sorte di questi alti ufficiali della corte egiziana, in favore e a sfavore. Qualcosa di simile poté capitare a Mosè. Anche Mosè, infatti, fugge, viene soccorso da un gruppo beduino, la famiglia di Ietro, e si incultura in quella famiglia per poi riprendere il cammino verso l’Egitto.
La figura di Mosè che fugge richiama un problema che gli storici dell’esodo affrontano forse con troppa disinvoltura, quando si domandano se l’esodo sia davvero avvenuto e se lo sia stato nella fattispecie descritta dal testo sacro: la tradizione "militare" di Mosè. Noi conosciamo il Mosè dei Numeri, che è mite, è umano come nessun altro, ma c’è una seconda tradizione, che possiamo conoscere dai frammenti degli storici greci e alessandrini (Manetone ad esempio). Sono frammenti – quindi la documentazione non è completa – che però si rifanno a una tradizione consistente che parla di un Mosè che ha combattuto quando era in auge alla corte del faraone. Ha combattuto nel sud, contro la Nubia, e poi ha preso in mano anche la situazione del gruppo israelita, combattuto perché accusato di portare la lebbra tra la popolazione egiziana.
Ora questa figura di Mosè militare è quasi scomparsa dal racconto dell’esodo, però ci sono alcune piccole tracce che potrebbero essere importanti.
- Al capitolo primo del libro dell’Esodo si riporta il dubbio del faraone se mai a un certo punto la minoranza israelitica potesse insorgere contro il faraone stesso, e sarebbe la motivazione per i lavori servili di questa minoranza. Effettivamente ci furono delle sollevazioni asiatiche contro gli egiziani.
- Abbiamo anche un’espressione che ritorna nel racconto biblico, quando si dice che "marciavano ben armati", "a gruppi ben armati". I filologi dicono che si tratta di "gruppi", che non c’è nulla di militare. In realtà, si tratta di un’espressione militare.
- Ricordiamo poi l’insistenza con cui al capitolo 14 dell’Esodo si parla dei carri, cavalli e cocchieri del faraone. Certo è una esagerazione, però c’è qualcosa di militare.
- Se poi ricordiamo il fatto di Amalek, lì Mosè non combatte, ma si narra di un combattimento contro gli amaleciti.
- Nel libro dei Numeri sono narrate le guerre che si fanno in Trangiordania contro Og e Seon.
Questa tradizione militare, secondo molti storici di oggi, è stata volutamente dimenticata dai circoli sacerdotali, specialmente dal clero dell’esilio. Con un po’ di disinvoltura si dice che la figura di Mosè abbia molte facce e che nella versione biblica sia stato ripreso soltanto il punto di vista religioso, dimenticando le altre rappresentazioni. Si tratterebbe, cioè, di una scelta da attribuire puramente alla tradizione o allo storico di Mosè. Secondo me ridurre a questa conclusione il dibattito è un po’ semplicistico.
È probabile che nel background di questi primi 40 anni di Mosè alla corte del faraone ci siano dei lati oscuri, sui quali non disponiamo di documentazione, ad eccezione di questi frammenti degli storici del tempo ellenistico, i quali possono riflettere la realtà. D'altra parte è probabile che la tradizione biblica abbia voluto far emergere l’anima di Mosè, il suo colloquio con Dio, diremmo noi, la sua conversione. Questo è molto significativo. Non si è trattato di una scelta arbitraria circa Mosè, ma si è voluto rispondere alla domanda: che cosa è successo a Mosè quando è fuggito in Madian ed è rimasto lì 40 anni o comunque un lungo tempo? C’è stata veramente una conversione interiore. E, anche se lui ha preso dall’esterno il nome di JHWH, la divinità che aveva questo nome lì presso i madianiti, le ha però dato un contenuto completamente diverso. Questa insistenza sulla sua vita mistica, sulla sua vita con Dio, è fondamentale per chi crede, tanto da far scomparire l’aspetto militare.
È poi anche un alto ammonimento per la generazione dell’esilio, che ricominciava a costruire la comunità di Israele, a non lasciarsi sedurre dal mito di uno stato, o dal mito militare, o dal mito monarchico, che aveva fallito nei tre secoli precedenti.
Quando dunque si legge la storia di Sinuhe, possono venire in mente tutte queste considerazioni: a Mosè è probabilmente successo qualcosa di simile, dovette fuggire, magari aveva preso coscienza della minoranza israelitica del paese, però poi ritorna cambiato rispetto al probabile principe militare del periodo precedente.