Fonte → Michael C. Legaspi, Bible & Interpretation (settembre 2010)
Ciò che si sviluppò nella metà del diciottesimo secolo non fu una nuova consapevolezza del carattere “umano” o “storico” della Bibbia, quanto piuttosto la convinzione che la Bibbia non era più comprensibile come testo, ossia come autorità auto-autorizzante e unificante nella cultura europea. I suoi soli significati divennero confessionali: cattolico, luterano, riformato.
Il concetto di critica storica è complesso. Da una parte, esso implica una serie molto specifica di procedimenti per accertare la data e l’origine di un testo o documento – procedimenti strettamente associati all’umanesimo rinascimentale e allo studio della legge, dei classici e della letteratura, ma, quando ci si riferisce alla critica storica nel contesto teologico e biblico di solito s’intende qualcos’altro. Negli ultimi duecento anni si usa il termine di critica storica in senso lato come sinonimo di critica biblica moderna o del metodo dominante dell’erudizione biblica accademica dell’Occidente. Le ragioni di ciò non sono difficili da ipotizzare. Per tutto il diciannovesimo e il ventesimo secolo, i contesti storici della Bibbia, se raggiunti attraverso la filologia, la critica testuale, l’archeologia o la critica delle fonti, restavano al centro dei tentativi accademici di spiegare la Bibbia. E’ tuttavia sbagliato identificare la critica biblica moderna con la critica storica, perché questa equazione travisa il sapere biblico e si allontana dalla discussione reale circa le sue connessioni con i metodi interpretativi non accademici.
Questioni storiche riguardanti la Bibbia, per quanto importanti siano state, non portano al nocciolo di ciò che il sapere biblico moderno è o è stato. Malgrado quanto i fondamentalisti conservatori e i liberali abbiano detto in passato circa i principali confini teologici della ricerca storica, la preoccupazione fondamentale del mondo accademico moderno non è la storia. Il problema non riguarda tanto il programma intellettuale storico che ha animato il sapere moderno nel diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo, quanto piuttosto il carattere culturale della critica moderna inteso come uno sviluppo istituzionale dell’Illuminismo tedesco progressista. Mentre nel diciottesimo secolo le radici della cultura moderna si fecero evidenti, il vero punto di separazione tra la critica biblica moderna e gli approcci confessionali non è la valutazione critica di ciò che la storia dice che sia la Bibbia, ma l’orientamento politico e culturale rispetto all’interrogativo che spieghi quale sia la finalità della Bibbia.
Un breve sguardo alle origini della critica moderna conferma quanto detto. In questo campo bisogna stare attenti ad evitare l’errore d’origine dal momento che, per la sua complessità, la critica biblica moderna sicuramente non può essere giudicata esclusivamente per ciò che fu quando nacque. Oggi possiamo vedere come la cultura moderna, incalzata dalla tarda critica moderna e da quella post-moderna del positivismo storico, deve un buon trattamento più alle sue radici che risalgono al diciottesimo secolo che alla sua evoluzione nel diciannovesimo secolo. Il fatto è che gli studi biblici – identificati per molto tempo con la critica storica – oggi sopravvivono come una disciplina, anche se lo scetticismo sull’autenticità e il valore della conoscenza storica stessa ormai è un aspetto accettato della stessa disciplina. Siccome la critica storica è al crepuscolo, è possibile riconoscere il suo obiettivo con chiarezza e obiettività. Come ha ricordato Hegel, la civetta di Minerva vola al crepuscolo.
Dalla scrittura al testo
Per un millennio i cristiani occidentali hanno letto e onorato la Bibbia cristiana come Scrittura, come un’antologia di scritti unificati e autorevoli appartenenti alla Chiesa. La Bibbia scritturale non era né riducibile a un testo scritto né comprensibile fuori da una divina economia di significato. Non rappresentò semplicemente l’istituzione della teologia accademica della Chiesa, ma fornì anche il suo universo morale, fu all’origine delle sue indagini filosofiche e le sue liturgie. Fornì i materiali per il pensiero, l’espressione e l’azione, diventando ciò che Northrop Frye definì, a buona ragione, il “grande codice” della civiltà occidentale. Come libro al centro della cristianità occidentale, la Bibbia fu usata in modo scritturale.
In seguito alle traumatiche divisioni religiose del sedicesimo secolo, tuttavia, la Chiesa frammentata cessò di essere un corpo unito capace di garantire una visione coerente della Bibbia come sua Bibbia. Poiché sia i cattolici che i protestanti, in modi diversi, rivendicavano la Bibbia come propria, essa non poté più avere la funzione di Scrittura senza suscitare problemi. La sua natura ed autorità dovette essere spiegata e legittimata con riferimento a concetti extra-scritturali, sia giuridicamente, come tra i cattolici, che dottrinalmente, come tra i protestanti.
Nel corso delle controversie della Controriforma, la Bibbia finì per essere vista come un oggetto di dispute tra i cristiani occidentali, trasformandosi in definitiva in una molteplicità di bibbie con canoni distinti, contesti ecclesiali separati e sovrastrutture teologiche. Ciò che aveva funzionato in modo centralizzato nella vita della Chiesa divenne, nel primo periodo moderno, una forma di terreno di prova testuale per la legittimità di conoscenze teoretiche extra-scritturali: in primo luogo teologiche e polemiche e poi, col tempo, letterarie, filosofiche e culturali. Come testo, oggetto di analisi critica, la Bibbia ne acquistò in chiarezza, come Scrittura, al contrario, divenne sempre più opaca.
Il diciottesimo secolo
Ci volle tempo e una serie di circostanze favorevoli perché il passaggio completo di questa trasformazione diventasse evidente. In Germania lo sviluppo degli studi biblici come una disciplina accademica più di duecento anni fa, dopo la Riforma, fu un baluardo di ciò che può essere chiamata la “morte della scrittura” nell’occidente. Le opere di Spinoza, Hobbes, Simon e altri testimoniano il fatto che le analisi filologiche, critiche e storiche della Bibbia, associate agli studi biblici moderni, erano già ben noti dall’ultimo periodo del diciassettesimo secolo. Ciò che non è stato ben compreso è perché ciò non abbia comportato un programma critico organizzato, istituzionale, cosciente del suo metodo fino al tardo diciottesimo secolo.
Non fu semplicemente una profonda curiosità riguardo al linguaggio, alla forma e al contenuto della Bibbia a indurre gli studiosi biblici del diciottesimo secolo a ideare programmi di ricerca ambiziosa. Nei decenni a cavallo del diciottesimo secolo, il prestigio della Bibbia nel mondo occidentale si ridusse al minimo. Si imposero gli scettici, i critici razionalisti e i sostenitori della nuova scienza divulgata dappertutto e in modo influente sullo stato della corruzione dei testi della Bibbia, l’inaffidabilità dei suoi racconti storici, la durezza del suo stile, e, in qualche caso, la bizzarra, e perfino puerile consistenza dei suoi racconti. Fu, per molti intellettuali, un libro non più degno di credibilità. Richard Popkin ha sostenuto, in modo convincente, che lo scetticismo nei confronti della Bibbia ha le sue radici nella crisi intellettuale provocata da dispute teologiche prolungate e irrisolte sui fondamenti dell’attendibilità dell’ermeneutica cattolica e protestante. Le crudezze e la violenza che seguirono alla divisione religiosa nei secoli successivi alla Riforma si trasformavano in aspre critiche della fede tradizionale, da una parte, e conducevano all’intensificazione dell’interpretazione confessionale e alla teologia polemica, dall’altra.
Ciò che si sviluppò nella metà del diciottesimo secolo non fu una nuova consapevolezza del carattere “umano” o “storico” della Bibbia, quanto piuttosto la convinzione che essa non era più comprensibile come testo, cioè, come riferimento auto-autorizzante e unificante nella cultura europea. Aveva significato in campo confessionale: cattolico, luterano, riformato.
Se la Bibbia avesse trovato un posto nel nuovo ordine politico, in quanto elemento attivo del potere unificante dello stato, si sarebbe verificato ciò che avviene rispetto a un’eredità culturale comune. Questa fu una brillante intuizione degli accademici tedeschi, che lavoravano alle nuove e rinnovate istituzioni nel periodo della riforma universitaria dell’Illuminismo. Essi divennero esperti della cultura più antica, dando impulso allo studio in questo settore – da quei due secoli in avanti essa divenne oggetto di studi filologici, critico-testuali e antiquari – nel tentativo di inserire la Bibbia in una cultura straniera e di impostazione storica. In questo modo, essi introdussero una separazione storica che permise loro di lavorare sulla Bibbia come se fosse un corpo inerte e separato di tradizioni. Usarono la ricerca storica per scrivere il certificato di morte della Bibbia mentre aprivano, contemporaneamente, una nuova strada per recuperare gli scritti biblici come produzioni culturali antiche capaci di rinvigorire i valori e le mete del nuovo ordine sociopolitico.
Nel diciottesimo secolo, gli studiosi biblici all’università cercarono di recuperare una Bibbia universale o cattolica, una Bibbia capace di promuovere l’unità cuturale e sociale. All’università la Bibbia confessionale moribonda venne ricostruita in una forma accademica. Gli obiettivi politici dell’Illuminismo tedesco avevano un accentuato riflesso accademico: in quel periodo molte università vennero fondate o rifondate espressamente per soddisfare gli interessi dello stato. Le università tedesche conservavano le identità confessionali e le tracce delle loro origini ecclesiali. Eppure queste identità confessionali e la professionalità tradizionalemente connesse con il loro rinvigorimento furono volutamente soppresse in questo periodo. L’obiettivo era quello di formare uomini razionali, tolleranti e raffinati, capaci di servire chiese e governi di governanti innovativi nei territori della Germania, nei regni e negli elettorati.
Studiosi come Johann David Michaelis (1717-1791), di Göttingen, riuscirono a formulare percorsi di riferimento che permisero a professori e a studenti di avvalersi della Bibbia e servirsi di interessanti strutture non dipendenti da un’identità religiosa. In senso ampio, il progetto di Michaelis era quello di ricostruire un Israele biblico all’interno di una civiltà classica. Si faceva grande pressione sui professori universitari visti come impiegati di uno stato perché dessero il loro contributo allo sviluppo intellettuale e sociale o Bildung (educazione) dei loro studenti per mezzo di un modello che promuovesse una formazione intellettuale razionale, irenica, pragmatica e secondo un senso civico della cultura tradizionale. Sotto questa luce, l’Israele biblico apparve antiquato, tradizionale e arretrato, un’invenzione teologica del giudaismo e luteranesimo ortodosso; l’Israele classico, invece, secondo la visione di Michaelis, sembrava nuovo e promettente, una creazione colta che poteva riservare un posto per la Bibbia in una cultura post confessionale e moderna.
Per creare un Israele classico Michaelis fece tre cose. Lo separò dal giudaismo tradizionale e dal cristianesimo confessionale. Michaelis, per esempio, insisteva sulla staticità della lingua ebraica, negando il suo sbocco nel giudaismo rabbinico e respingendo l’eccezionalità linguistica degli ebraisti cristiani. Michaelis formalizzò un programma per gli studi ebraici che si basavano sull’uso comparato dell’arabo, del siriaco e dell’etiopico e adottò norme scientifiche dallo studio del greco e del latino. In secondo luogo, basandosi sul lavoro di Robert Lowth, fece uso di un nuovo concetto di poesia biblica per riproporre la Bibbia come un’antologia di letteratura classica sublime. In questo modo, egli creò dalla radice una nuova struttura di riferimento per l’interpretazione. Il punto di contatto tra la poesia biblica e l’interprete non era la fedeltà nei confronti di un canone e di una comunità di fede ma piuttosto la capacità di dare un giudizio estetico. Infine, nel campo della legge biblica, Michaelis rifiutò la normativa teologica della Bibbia, dichiarando che Dio non ha mai inteso (sc. la legge di Mosé) vincolare nessun’altra popolazione eccetto gli israerliti. Nel suo capolavoro Mosaisches Recht (La legge mosaica) in sei volumi degli anni 1770-1775, Michaelis presenta un’analisi filosofica e storica delle leggi bibliche che diedero a Mosé la fama di un genio della legge. Le leggi bibliche divennero fonte di informazione sul mondo antico e risorse contemporanee per la filosofia politica, ma cessarono di avere la funzione di leggi nel senso tradizionale.
Lo sviluppo e l’unificazione di discipline ausiliarie come l’etnografia, la storia delle leggi, le lingue semitiche comparate, la scienza testuale e la poetica biblica costituiscono il retaggio durevole di Michaelis e della sua coorte del diciottesimo secolo. Chiunque abbia studiato la Bibbia in una università moderna riconoscerà il successo dei loro risultati metodologici. In quel periodo lo studio della Bibbia trovò una nuova sede nella facoltà filosofica. La teologia esegetica si trasformò in ‘studi biblici’. L’università divenne l’ospite di una nuova metodologia interpretativa che, in quel periodo, sembrava tanto severa, coerente e totalizzante quanto i metodi tradizionali e confessionali lo erano stati per secoli. I vari ricercatori provenienti dalle fila dei primi scettici e liberi pensatori, sebbene ogni punto fosse critico, non avevano formulato un programma interpretativo convincente fino all’unificazione realizzatasi nell’università. Guidata da metodi e presupposti che rinforzavano lo statalismo e l’irenismo dei cameralisti dell’Illuminismo, la nuova disciplina degli studi biblici permise agli studiosi di creare una Bibbia post-confessionale con la ricostruzione di un Israele pre-confessionale.
La critica accademica oggi
La critica biblica moderna, una volta applicata alle Bibbie confessionali, non è antagonista della fede religiosa, ma è sua erede. Sebbene si sia caduti nell’incresciosa abitudine di identificare gli studi biblici con la critica storica, un’orizzonte più ampio della ricerca moderna mostra che il suo principale scopo era la gestione post-confessionale dell’autorità culturale della Bibbia e non l’analisi scientifica dei suoi contesti storici. Come sapevano gli studiosi dell’Illuminismo tedesco, questa forma di gestione non solo proteggeva l’integrità accademica degli studi biblici come disciplina, ma permetteva anche ai critici di apprezzare l’autorità culturale della Bibbia in maniera irenica. Nei due secoli che seguirono la Riforma, gli uomini fedeli alle loro identità confessionali e alle loro Bibbie lacerarono l’Europa. Non è difficile vedere perché l’irenismo fosse argomento urgente nel diciottesimo secolo. Non ci sono difficoltà neppure a comprendere perché, in un trattato sul ruolo sociale delle università, Michaelis abbia raccomandato l’uso dell’erudizione critica per vaccinare i territori tedeschi contro il fanatismo e la violenza religiosa.
Gli studi biblici sono, al momento, ancora un progetto sociale e culturale, che esiste principalmente come un’alternativa ai metodi tradizionali e confessionali dell’interpretazione biblica. John Collins, di Yale, un eminente critico storico, ha precisato questo punto. In un discorso alla Società della Letteratura Biblica, lo studioso ha dichiarato che i critici biblici possono aiutare ad arrestare la violenza religiosa sottolineando la diversità dei punti di vista presenti nella Bibbia per relativizzare quelli più problematici. Operando in questo modo, gli studiosi eviterebbero ai lettori di adottare qualsiasi convinzione preconcetta su cosa la Bibbia dica veramente. Di conseguenza, il critico può dimostrare a qualsiasi vero credente, pronto a sguainare la spada, che la “certezza” del significato della Bibbia è solo un’”illusione”. Più di recente, Collins si è soffermato sulla relazione del postmodernismo con la critica biblica moderna. Sostenendo che le strategie interpretative postmoderne possono essere pienamente assimilate alla critica biblica moderna, Collins mira a riscattare la disciplina dall’osservazione non pertinente e a difenderla dal supersessionismo (sostituzionalismo) metodologico. Secondo il suo giudizio, l’interpretazione postmoderna nega programmaticamente l’oggettività, la conoscibilità e la veridicità della storia. Nella visione di Collins, la critica postmoderna e la critica storica sono in ultima analisi compatibili, perché il valore reale della critica storica consiste nel vantaggio che ha di strutturare un tipo di discorso non confessionale. A suo avviso il focus storico è stato un modo per prendere le distanze da un testo, di rispettare la sua diversità. Ciò permette di produrre una “conversazione” sulla Bibbia secondo regole accademiche. I postmoderni possono ignorare, negare o anche demonizzare la ricerca storica, ma i loro metodi sono utili giusto a formulare conversazioni accademiche. Collins conclude dicendo che, in conclusione, essi sono una risorsa per la critica storica.
Ciò che resta della riflessione di Collins dopo il dialogo con il postmodernismo non è propriamente una critica storica ma piuttosto una critica accademica. La questione non è screditare le manovre di Collins ma piuttosto trarre vantaggio dalle acute osservazioni che vi sono dietro. Dopo tutto, l’aver compreso che, le questioni relative alla posizione sociale e alla visione politica a monte dell’indagine sono effettivamente le più urgenti nella critica storica contemporanea, è un’intuizione importante. E’ inoltre utile rendersi conto che queste preoccupazioni politiche e moralistiche sono in sintonia con le critiche postmoderne della cultura convenzionale.
Con le recenti affermazioni di Collins (e le situazioni a cui si riferiscono), si è andati oltre il diciannovesimo secolo “storico” e ritornati al diciottesimo “culturale e politico”. Gli studiosi della Bibbia dell’università dell’Illuminismo erano dipendenti dello stato, accusati di creare un metodo di studio della Bibbia che le avrebbe permesso di condurre una vita normale su nuovi principi. La critica accademica non solo generava nuove strutture interpretative, poneva anche lo studio della Bibbia in una nuova posizione – la facoltà filosofica dell’università – e le assegnava uno scopo sociale utile – il rinnovamento dell’irenismo religioso. Gli studiosi diedero nuova vitalità alla Bibbia per arricchire e sostenere un ordine sociale e culturale basato su un generico e progressista protestantesimo. Come fu per questi ricercatori, anche l’interesse accademico principale di Collins è morale. Egli mira a garantire una versione di libertà accademica e a combattere il fondamentalismo usando il sapere per sconfiggere la certezza religiosa. Non è sorprendente, allora, che Collins veda se stesso come un erede, più di tutti, dell’Illuminismo.
Un Ritorno alle domande fondamentali
Una comprensione chiara della storia della critica moderna ha implicazioni importanti per lo studio della Bibbia oggi: i suoi obiettivi, contesti, e, di certo, il suo futuro. Ciò si oppone al modo in cui è trattata in definitiva la relazione conflittuale tra le Bibbie del giudaismo e cristianesimo tradizionali da una parte e la Bibbia accademica creata e gestita dagli studiosi dall’altra. Troppo spesso esse sono considerate, senza risultati, come simboli di un’antitesi superata tra ragione e fede, storia e rivelazione, profano e sacro. La storia della critica moderna biblica, tuttavia, mostra che le antitesi fondamentali non erano intellettuali o teologiche, ma piuttosto sociali, morali e politiche. I critici accademici non hanno fatto a meno dell’autorità di una Bibbia ridondante di religione, ma l’hanno reimpiegata in una forma diversa.
Il fondamentalismo e la violenza religiosa possono avere effetti devastanti. Il sapere senza dubbio ha un ruolo nel pensare attentamente al come comprenderli e approcciarli. La domanda, tuttavia, è se il tipo di mandato sociale e culturale descritto da Collins, e incluso nella critica moderna, sia del tutto adeguato per il nostro tempo. Ha senso lavorare contro la certezza in un’epoca di fede sovrabbondante, per sfrondare in modo critico le irragionevoli conseguenze della dedizione religiosa e gestire l’autorità culturale di una Bibbia che minaccia di disfare l’ordine sociale.
Nel nostro tempo, però, un’epoca di bassa alfabetizzazione biblica, di fede limitata e impegno religioso indebolito, gli studiosi della Bibbia vedono gradualmente ridotta la loro autorità culturale nella gestione di fenomeni del genere e, quindi, coloro che sono interessati alla Bibbia hanno meno ragioni per prestare loro attenzione. Coloro che partono per un viaggio cercano una guida non poliziotti. Le domande fondamentali orientano ad una domanda esplicita. Quella di oggi non è “Qual è la valenza culturale concreta della Bibbia con cui sono cresciuto?”, ma piuttosto, dopo il declino della cristianità e la lunga, lenta deconversione della cultura di élite nell’Occidente, “Perché abbiamo una Bibbia?”.
Per questa domanda i teologi senza dubbio hanno diverse risposte. I critici storici, forse, non ne hanno affatto. Come affermò Max Weber nella sua lezione sulla scienza intesa come vocazione: “le profezie accademiche possono solo produrre sette fanatiche, mai comunità autentiche”. I teologi che operano all’interno delle loro tradizioni servono comunità autentiche di fede. La critica accademica, tuttavia, è stata creata per dar vita a una nuova comunità post confessionale unita dalla fede nello stato. Se Weber ha ragione, allora l’ambizione sociale del progetto critico moderno ha in gran parte fallito: la Wissenschaft (la scienza) non può sostenere una comunità autentica perché, diversamente dal credo religioso, non può decidere cosa in definitiva è utile conoscere, può solamente chiarire cosa si vuole conoscere. Secondo Weber, come uomo, si deve o sopportare la fede dell’epoca o ritornare all’abbraccio accogliente e clemente delle chiese antiche. Non è certo, però, che la fede delle chiese antiche sia così confortevole e accondiscendente come pensa Weber. Questi ha, tuttavia, sicuramente ragione ad insistere che, qualsiasi cosa qualcuno faccia, è meglio che la faccia con integrità assoluta.
Adattamento: R.P.